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Valentin Katasonov. Nel luogo d’origine del petrodollaro si annida la sua fine

Итальянский перевод статьи «В МЕСТЕ, ГДЕ РОДИЛСЯ НЕФТЕДОЛЛАР, ТАИТСЯ ЕГО СМЕРТЬ»

 

Sulla strada verso la liberazione dall’egemonia del dollaro USA

Il petrodollaro statunitense ha due luoghi e due date di origine.

Innanzitutto, la Giamaica. Lì, nella città di Kingston, alla Conferenza Monetaria e Finanziaria Internazionale dei Paesi membri dell’FMI del 1976, si è deciso di passare dallo standard del dollaro collegato all’oro a quello del dollaro di carta, completamente slegato dal metallo giallo.

In secondo luogo, l’Arabia Saudita. Lì, nel 1974, dopo la Guerra Arabo-Israeliana del 1973 e la crisi energetica globale, scaturita dal suo effetto vorticoso (i prezzi del petrolio sono quadruplicati in pochi mesi), sono stati conclusi i negoziati tra l’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger e l’allora Ministro delle Finanze William Simon con il Re saudita. Tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita è stato raggiunto un accordo, in base al quale quest’ultima avrebbe venduto il suo petrolio esclusivamente in dollari. E Washington ha promesso di essere pronta a collocare questi dollari nel sistema bancario statunitense. Inoltre, gli Americani hanno promesso di fornire armi all’Arabia Saudita e di non permettere alcun attacco da parte di Israele contro di lei.

Dopo il successo a Riyadh, gli Americani hanno tenuto colloqui con i Capi di altri Stati produttori di petrolio del Vicino e Medio Oriente e raggiunto un accordo sulla condizione del “petrolio in cambio di dollari USA”. Il vecchio cartello petrolifero delle “Sette Sorelle” (cinque compagnie petrolifere americane e due europee) è stato sostituito da un nuovo cartello, sotto forma di accordo intergovernativo dei Paesi produttori ed esportatori di petrolio, l’OPEC. Questa organizzazione è diventata una parte importante del nuovo sistema monetario mondiale, costruito dai proprietari di denaro. L’OPEC ha permesso di far diventare petrodollaro il dollaro di carta.

Ecco ora alcune conclusioni. Primo, se gli Americani non avessero avuto successo a Riyadh nel 1974, non ci sarebbe stata la Conferenza della Giamaica del 1976, che avrebbe reso auspicabile la transizione allo standard del dollaro su carta per i proprietari della tipografia della Fed. In secondo luogo, il nuovo standard era solo formalmente un dollaro di carta, infatti riguardava il petrodollaro. Il mercato petrolifero globale ha continuamente generato la domanda per i prodotti della macchina stampatrice della Fed.

Il sistema monetario mondiale, basato sul dollaro USA (più precisamente sul petrodollaro), esiste ancora oggi, è in corso per il quinto decennio dalla sua origine. Tuttavia, ora il tempo del suo massimo splendore e del potere illimitato è alle spalle. Un sintomo esterno della malattia di questo sistema è la richiesta sempre più frequente di liberazione dall’egemonia del dollaro.

L’inasprimento della malattia si è verificato dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009. La necessità di abbandonare il monopolio del dollaro americano, all’inizio del decennio corrente, è stata più volte dichiarata dall’allora Direttore Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn. Per la quale ha anche pagato. Più o meno nello stesso periodo, il leader libico M. Gheddafi ha dichiarato che il suo Paese sarebbe passato dai dollari USA agli euro, nei pagamenti per il petrolio esportato. Ha anche annunciato l’avvio del progetto “Golden Dinar”. Anche Gheddafi ha pagato per questo.

Ora, tuttavia, tutto sembra diverso. Solo i pigri non parlano della necessità di de-dollarizzare l’economia mondiale. Ad esempio, il Presidente francese E. Macron ha fatto almeno una dozzina di tali dichiarazioni.

Or ora cosa abbiamo in mano? Secondo l’FMI, nel 1995 il dollaro degli Stati Uniti rappresentava il 59% delle riserve valutarie mondiali. E l’anno scorso, la quota del dollaro era già del 63%. Ed ecco i dati del sistema SWIFT, che presenta regolarmente le statistiche delle transazioni di pagamento che ci passano attraverso per tipi di valute. All’inizio del 2012, il dollaro USA rappresentava il 29,7% di tutte le operazioni e all’inizio del 2019 il 39,1%. Dov’è la de-dollarizzazione? Non si vede proprio. La gente ne parla, ma alle parole non hanno finora corrisposto i fatti.

E ora, a quanto pare, l’Arabia Saudita ha violato questa tradizione. All’inizio di aprile, Riyadh ha rilasciato una dichiarazione alquanto importante sull’eventuale de-dollarizzazione, come misura in reazione alle azioni di Washington: si diceva che se il Congresso degli Stati Uniti avesse approvato la legge NOPEC (No Oil Producing and Exporting Cartels Act), l’Arabia Saudita avrebbe rifiutato l’accordo del 1974 di vendere petrolio esclusivamente in cambio di dollari USA, sostituendolo con altre valute.

Il disegno di legge citato è formalmente diretto contro i cartelli petroliferi. Tuttavia, oggi è noto solo un cartello di questo tipo: l’OPEC, di cui fanno parte 14 Stati. Cioè, il disegno di legge americano mira a distruggere o almeno a neutralizzare l’OPEC. I Paesi membri dell’OPEC controllano circa 2/3 delle riserve petrolifere mondiali; rappresentano circa il 35% della produzione mondiale e circa la metà delle esportazioni mondiali di petrolio. L’Arabia Saudita occupa posizioni chiave in questa organizzazione – circa un terzo della produzione totale dell’oro nero dell’OPEC. Alla fine del 2018, Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale dell’Arabia Saudita, aveva un fatturato di 356 miliardi dollari e il suo utile netto era di 111,1 miliardi di dollari. Questo supera di svariate volte il leader del business petrolifero americano Exxon Mobil.

Riyadh percepisce il disegno di legge NOPEC come un attacco diretto al suo indirizzo. A proposito, in America, questo disegno di legge non è supportato da tutti. Credo che non riceverà ancora sostegno al Congresso degli Stati Uniti, e Riyadh non dovrà portare avanti la sua minaccia. Tuttavia, il fatto di un minaccioso avvertimento a Washington è significativo. Ora le relazioni USA-Arabia Saudita sono lungi dall’essere quelle che erano negli ultimi decenni del Ventesimo secolo. Le contraddizioni crescono. Riyadh ha mostrato i denti a Washington più di una volta negli ultimi anni. Ad esempio, quando il Congresso degli Stati Uniti ha cercato di imporre la responsabilità all’Arabia Saudita per l’atto terroristico a New York dell’11 settembre 2001. La responsabilità non è solo politica e morale, ma anche finanziaria. Si diceva che Riyadh avrebbe dovuto rimborsare i danni derivati dall’atto terroristico, incluso il pagamento di un risarcimento ai parenti delle vittime. Allora i Sauditi, in qualità di attacco di risposta, hanno minacciato Washington che avrebbero ritirato i loro beni dagli Stati Uniti, che sono valutati in almeno 1 trilione di dollari. Ed ecco ora la minaccia di abbandonare il dollaro USA come valuta dei pagamenti per il petrolio.

Sorge una domanda: gli altri Paesi possono utilizzare la minaccia di abbandonare il dollaro USA in qualità di arma politica? Ecco, ad esempio, la Cina. Le relazioni di Pechino con Washington si sono intensificate. Forse Pechino dovrebbe seguire l’esempio di Riyadh e dire a Washington: “Rinunceremo al dollaro USA, se continuerete la vostra politica protezionistica contro i beni e gli investimenti cinesi”? Penso, tuttavia, che Pechino non ricorrerà a tale arma. Perché quasi il 100% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti è pagato in dollari. Dopo aver rinunciato di accettare dollari, la Cina si farà harakiri da sé, poiché da un giorno all’altro sarà privata di tutte le esportazioni verso gli Stati Uniti, e ciò rappresenta è la metà delle enormi esportazioni della Repubblica Popolare Cinese. La Cina continuerà a lottare per preservare le sue esportazioni in America. L’anno scorso, il surplus commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti (l’eccesso di esportazioni rispetto alle importazioni) è stato di 323 miliardi di dollari, e tutto questo è pagato con il prodotto della macchina stampatrice della Fed. I dollari, guadagnati nel commercio con gli Stati Uniti, riempiranno le riserve valutarie cinesi. Quindi Pechino non seguirà esattamente l’esempio di Riyadh.

Forse l’Europa? Penso che neanche lei sia pronta. Washington la tiene al guinzaglio corto degli interessi commerciali. L’Unione Europea ha anche un grande surplus commerciale con gli Stati Uniti (circa 100 miliardi di dollari all’anno). E con rare eccezioni, tutte le forniture di merci europee in America sono pagate in dollari. Se l’Europa dichiara all’America che non è più pronta ad accettare dollari americani per le sue merci, essa, come la Cina, perderà immediatamente le sue esportazioni in America e l’enorme surplus commerciale con il suo partner commerciale d’oltreoceano.

In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita è più vantaggiosa. Se le merci cinesi o europee, dopo essere state private del gigantesco mercato americano, non possono essere trasferite ad altri mercati (tutto è già deciso, i mercati delle materie prime sono ipersaturi), mentre la situazione relativamente al petrolio è diversa. L’America sta rapidamente aumentando la sua produzione di petrolio, riducendo le sue importazioni, anche dall’Arabia Saudita. Oggi i Sauditi forniscono più petrolio a Cina, Giappone, India che agli Stati Uniti, le forniture saudite al mercato europeo e alla Corea del Sud stanno crescendo rapidamente.

Gli interessi economici dell’Arabia Saudita stanno lentamente passando dall’America ad altre parti del mondo. Inoltre, il petrolio è una merce molto richiesta da molti Paesi. Se l’Arabia Saudita realizza la sua minaccia e rifiuta i dollari nei pagamenti con l’America, perderà il mercato americano, ma sarà in grado di trasferire il petrolio estratto ad altri mercati.

Ripeto ancora una volta: potrebbe benissimo essere che l’America non si spari a un piede da sola e non accetti la legge di NOPEC. E Riyadh non dovrà portare avanti la sua minaccia. Tuttavia, l’idea della possibilità di un ulteriore utilizzo di questa minaccia (in altre situazioni) è già stata assimilata. E a un certo punto, i Sauditi potrebbero decidere di portare a termine la minaccia. Donald Trump, che ha intrapreso lo sviluppo accelerato dell’industria petrolifera e il raggiungimento dell’autosufficienza degli idrocarburi negli Stati Uniti, aiuta Riyadh solo a questo proposito.

Il petrodollaro ha avuto origine in Arabia Saudita 45 anni fa. È possibile che questo sia proprio il luogo dove è in agguato la sua fine.

 

VALENTIN KATASONOV

Fontehttps://www.fondsk.ru/

https://comedonchisciotte.org/nel-luogo-dorigine-del-petrodollaro-si-annida-la-sua-fine/

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